musica inquinamento

Nel corso della storia la musica ha visto vari strumenti e modi per riprodurla. Da tutto ciò deriva un certo livello d’inquinamento, dovuto alle plastiche e ai materiali usati in cd e vinili. Ma anche lo streaming non scherza

Diciamoci una verità lapalissiana: la musica è una creazione straordinaria, siamo tutti d’accordo, e i modi per poterla ascoltare sono cambiati radicalmente nel corso degli anni. Non si ha però una generale idea di quanto questa industria inquini, e di come tale impronta sia mutata nel corso del tempo. Verrebbe da pensare che con l’attuale streaming digitale, che riduce la produzione di dischi e vinili (ergo plastica o simili) per nicchie più o meno grandi di appassionati, il tutto sia “green” e pulito. Ma non è esattamente così.

I soggetti

L’8 Aprile 2019 è stato reso pubblico uno studio condotto dall’Università di Glasgow e l’ Università di Oslo intitolato “the cost of music”, un nome che lascia intendere la sua natura: valutare il costo ambientale, in termini d’inquinamento, dei nostri brani tanto apprezzati.

quanto consuma l’industria musicale?

Lo studio analizza due campi, uno puramente economico e un altro legato all’inquinamento. Sul primo, è emerso che oggigiorno il prezzo che siamo disposti a pagare per la musica è inferiore (nella media) rispetto agli anni passati, grazie ai ridotti prezzi dello streaming musicale digitale (spesso pure gratuito). Sul secondo, invece, il discorso si estende: in termini di consumo, nel 1977 (il picco delle vendite USA di LP) l’industria discografica ha utilizzato 58 milioni di chilogrammi di plastica. Nel 1988 invece (il picco delle vendite di cassette) si è passati a 56 milioni di chilogrammi. Nel 2000 (il picco delle vendite di CD) se ne sono impiegati 61 milioni. Sopraggiunto lo streaming, ecco l’improvviso calo: negli USA il totale si abbassa a 8 milioni di chilogrammi fino al 2016.

Problemi di riciclo di cd e vinili

I supporti degli anni passati non sono pienamente riciclabili, il che ha danneggiato l’ambiente in una sua misura: i vinili moderni (che sembra stiano tornando alla ribalta, con vendite cresciute del 12%) contengono in media 135 grammi di Pvc, una resina termoplastica con un’impronta (carbon footprint) di 0,5 kg di CO2; questo materiale è solo parzialmente riutilizzabile per via degli alti costi di lavorazione, e il tutto si traduce in tonnellate di anidride carbonica poco lusinghiere; e non stiamo considerando trasporto ed imballaggio. I cd, fatti di policarbonato e alluminio, sono leggermente meno inquinanti, ma non vengono riciclati perché composti da materiali misti difficili da separare, e che comunque rilascerebbero sostanze tossiche quando lavorati per riusi futuri.

Lo streaming inquina

Con internet questo non si presenta. Quindi il web batte i vecchi supporti 10 a 0? No, per nulla. Anche se i nuovi formati sono immateriali, presentano a sorpresa un alto impatto ambientale. Per gestire e raffreddare i server e potenziare le reti di ascolto per lo streaming, è richiesto infatti un enorme quantitativo di energia elettrica. Ogni volta che riproduciamo una traccia avviene un certo dispendio di energia e un certo rilascio di CO2. Se si ascolta la musica in digitale attraverso un sistema audio hi-fi, si stima che il consumo energetico sia di 107 chilowattora di elettricità all’anno. Un lettore cd ne consuma 34,7.

Frequenza

Da tenere in conto è la frequenza con cui si ascolta la musica. In conclusione, se riproduciamo un brano solo un paio di volte, lo streaming è preferibile. Se lo sentiamo ripetutamente, invece, si consiglia di avere una copia fisica.


“Il punto di questa ricerca non è di dire ai consumatori che non dovrebbero ascoltare musica, ma di ottenere un apprezzamento dei costi variabili coinvolti nel nostro comportamento di consumo di musica”. spiega il Dott. Matt Brennan, accademico e musicista.
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